“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”
art.27, terzo comma della Costituzione della Repubblica Italiana

Oggi la questione della riabilitazione dei condannati è al centro del dibattito pubblico e politico. Le statistiche dimostrano che rieducazione e reinserimento sociale sono elementi chiave per ridurre la recidiva e quindi promuovere una comunità più sicura e inclusiva. Tra i vari strumenti a disposizione, il lavoro emerge come una delle risorse più potenti e trasformative: meno del 10% degli ex detenuti che trovano lavoro cadono in recidiva. Chi invece, uscito dal carcere, non trova un lavoro (un lavoro “vero”) il più delle volte torna a delinquere.

È evidente che lavorare va ben oltre il mero scopo economico. È un mezzo attraverso il quale le persone trovano un senso di scopo, dignità e autostima.
Troppo spesso in Italia il sistema carcerario continua a relegare gli individui a un ruolo di emarginazione sociale, senza un percorso chiaro per il reinserimento nella società.

Detenuti al lavoro tra i filari di una vigna

Il lavoro, invece, offre un’opportunità tangibile per costruire una nuova identità e una prospettiva positiva sul futuro perché il suo effetto rieducativo non è solo acquisizione di competenze professionali ma anche potenziamento di “soft skills” che promuovono abilità trasversali fondamentali, come il problem solving, la gestione dello stress e il lavoro di squadra che creano grandi benefici anche nella vita quotidiana e nelle relazioni interpersonali: per massimizzare l’impatto del lavoro nella rieducazione dei condannati è quindi essenziale investire in programmi che integrino l’istruzione, la formazione professionale e il supporto psicologico. Questi programmi dovrebbero essere progettati in modo da essere adattabili alle esigenze individuali e offrire opportunità realistiche di lavoro una volta che i condannati lasciano il sistema carcerario.

Ma l’aspetto forse più critico è il reinserimento sociale, cioè la capacità da parte della società di riaccogliere al suo interno chi ha sbagliato che troppo spesso si trova di fronte a barriere difficili da superare: stigma sociale, discriminazione lavorativa e mancanza di sostegno adeguato. Per questo il percorso di reinserimento non deve essere solo formativo per chi è “dentro”, ma culturale, per l’intera comunità e in particolare per il mondo delle aziende e per chi vi opera: è fondamentale coinvolgere attivamente le imprese e le comunità locali per creare un ambiente favorevole al reinserimento lavorativo.

In conclusione, il lavoro rappresenta una risorsa cruciale nella rieducazione dei condannati. Oltre a fornire una fonte di reddito, offre un percorso verso l’autosufficienza, la dignità e il senso di appartenenza. E investire nel potenziale umano dei condannati attraverso opportunità lavorative significa investire nel benessere della società nel suo insieme, riducendo la criminalità (e il suo impatto negativo economico oltre che sociale), promuovendo la sicurezza e costruendo una comunità più inclusiva ed equa.